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L’arresto di Francesco Gangemi, giornalista 79enne e ammalato, è l’ultima porcata di leggi e di un modo di applicarle da cambiare immediatamente. Anche con i referendum radicali
7 ottobre 2013
L’arresto di Francesco Gangemi, 79 (settantanove) anni, direttore del mensile “Il Dibattito” di Reggio Calabria, per il solito reato di diffamazione a mezzo stampa (non importa se “ripetuto” per due, cinque, cento volte) è l’ennesima porcata prodotta da un sistema normativo dal quale i giudici traggono novantanove volte su cento motivo per comminare condanne nei confronti dei giornalisti (specialmente quando i querelanti sono magistrati come loro e quindi a giudicare non è un terzo, ma un altro magistrato, cioè un “collega”).
I giudici condannano, e quasi sempre a pene detentive, anche quando il querelato è incensurato e magari lo si potrebbe “sfregiare” soltanto con una multa, che è sempre una sanzione penale, ma insomma non è la galera. No, loro, i giudici, fingendo di rimettersi a ciò che stabilisce la legge, quando possono pestano a sangue i giornalisti (e gli editori) e assieme al carcere (anziché la multa) comminano anche la sanzione civile del risarcimento danni, che ovviamente, soprattutto quando il querelante è un altro magistrato come loro (parlano le statistiche, non lo dico io), è sempre un risarcimento pingue e veloce.
Il cosiddetto grande pubblico, infatti, non sa che se un cittadino qualunque si sente diffamato e sporge querela, e poi vince la causa, vedrà i soldi del risarcimento soltanto dopo che la sentenza è diventata definitiva. Mentre se a sentirsi diffamato è un magistrato, e se questi vince la causa, i quattrini gli devono essere sborsati subito, già dopo la sentenza di primo grado (e la eventuale restituzione del bottino avverrà solo se nei gradi successivi di giudizio la sentenza dovesse essere ribaltata…).
Non ci si sgolerà mai abbastanza se si ripeterà fino alla noia ciò che da anni su questo tema sostengono l’Unione europea e la Corte europea di Strasburgo, e cioè che l’Italia da tempo ormai non è più la culla, ma è la tomba del diritto (altro che “lo Stato di diritto in Italia funziona”, caro Enrichetto Letta).
E tuttavia, a ogni condanna e a ogni arresto di giornalista, e a ogni corrispondente abuso perpetrato da pm e giudici sempre puntuali nel “salvataggio” dei propri amici – cioè di quelli che garantiscono al partito dei magistrati lo status quo, che non vogliono alcuna riforma, né del Csm, né dell’ordinamento giudiziario, né per la separazione delle carriere (a “unirle”, fu una legge fascista!), né niente di niente e che storcono il naso di fronte ai referendum radicali e purtuttavia ogni mattina fanno i gargarismi con le parole “giustizia”, “legalità”, “diritto”, e poi vanno a vendersele con i relativi esercizi palabratici agli idioti e ai finti tonti -, ebbene, a ogni condanna e ogni arresto di giornalista, tutti, in Parlamento, sembrano sbracciarsi e voler correre ai ripari: cambiamo la legge, sì, subito, come no, anzi ce n’è già una pronta da tempo e sulla quale saremmo tutti d’accordo… Poi passa la buriana, si spengono i riflettori e Francesco Gangemi, che tra l’altro è anche seriamente malato, oltre che anziano, può star lì per anni, a marcire in galera e a macerarsi con i suoi problemi. Mentre destra, sinistra e centro, più la disgraziata pattuglia di burattini casaleggiani catapultata a Montecitorio e a Palazzo Madama passa a occuparsi d’altro, eccitandosi (all’onanismo non c’è mai limite) per la decadenza di Berlusconi, e magari confidando, stupidamente, che mettano le manette anche a qualche altro giornalista, perché no, visto che son tutti “servi del potere” (e loro di chi sono servi, anzi, come direbbe uno dei protagonisti del film “Il Buono, il brutto e il cattivo” di chi sono figli?)
Questa della depenalizzazione del reato di diffamazione a mezzo stampa è una cosa seria. Molto più seria di ciò che comunemente si pensi. E non è una esagerazione sostenere che se non viene affrontata bene e subito, a farne le spese non sarà soltanto, come pure giustamente si dice, la nostra democrazia – o ciò che ne resta -, ma sarà ognuno di noi, individualmente, uno per uno.
Di pari passo, affinché questo rischio venga scongiurato, è necessario: a) rivedere l’intero “castello” e la relativa disciplina della diffamazione; b) sottrarre alla competenza dei magistrati il giudizio in questa materia quando “parte” del processo (querelante o querelato) sia un altro magistrato; c) ficcarsi bene in testa che se non passano alcune riforme del sistema giustizia (insisto: i referendum proposti dai Radicali), “il partito dei magistrati” – che è un potere forte o, se preferite, una lobby che al suo interno si comporta con la logica dei clan – esalterà all’ennesima potenza se stesso e si farà sempre meno scrupoli nel mostrare con chiunque il proprio volto feroce, esattamente nel modo in cui ne disse il grande Piero Calamandrei: “I magistrati sono come i maiali. Se ne tocchi uno, tutti gli altri gridano”.
E questo non è bello. Né utile. Né giusto. Forza Gangemi. Resisti. Se non ai porci che gridano, almeno alla porcata.
Francesco Michelacci
Ott 13, 2013 @ 22:27:04
Cosi’ funziona la nostra beneamata società, resta naturalmente da considerare un ulteriore diritto, quello di ogni cittadino, magistrato, operaio o disoccupato, di non vedersi calunniato da nessuno, tantomeno se giornalista.
Come dunque propone di affrontare la faccenda Vulpio?
Come trovare una soluzione equilibrata che soddisfi i diritti di ognuno?
Giulio
Feb 04, 2014 @ 18:07:30
“l cosiddetto grande pubblico, infatti, non sa che se un cittadino qualunque si sente diffamato e sporge querela, e poi vince la causa, vedrà i soldi del risarcimento soltanto dopo che la sentenza è diventata definitiva. Mentre se a sentirsi diffamato è un magistrato, e se questi vince la causa, i quattrini gli devono essere sborsati subito, già dopo la sentenza di primo grado (e la eventuale restituzione del bottino avverrà solo se nei gradi successivi di giudizio la sentenza dovesse essere ribaltata…).”
Dottor Vulpio, perchè invece di attaccare I grillini, come Le è consueto e come vogliono le buone regole del “politically correct” all’italiana, non prova a parlarne con qualche ” burattino casaleggiano”, come Lei li definisce?
Se questi ” burattini” le dovessero rispondere picche Lei avrebbe qualche argomento per attaccarli un pò più solido del “politically correct” all’italiana.
Questa diversione, quasi di rigore devo pensare, nel campo casaleggiano, non aiuta a concentrarsi sul resto del Suo testo che invece, come di consueto, è interssante e risponde a un senso civico del dovere che dovrebbe avere ognuno di noi a denunciare simili storture. Lei apre, un enorme capitolo quando afferma che i giudici non dovrebbero giudicare in processi in cui fossero implicati dei giudici. Se un simile principio dovesse essere applicato con il dovuto rigore e diventerebbe una pagliacciata se non lo fosse, tutta l’impalcatura legislativa, ivi compresa la costituzione, sarebbe ridotta a pezzi, con mio personale piacere perchè è indecente che un individuo qualsiasi giudichi se stesso o che lo sia da persone in qualche modo interessate a priori a sfavorirlo o a favorirlo.