25 APRILE, MISERIE E NOBILTA’

Lascia un commento

A me questo 25 aprile 2024 in versione “American Fiction” (film di Cord Jefferson, tratto dal romanzo “Erasure”, Cancellazione, di Percival Everett, in cui se non fai il nero come i bianchi vogliono che siano i neri e se non rappresenti i neri secondo i luoghi comuni del politicamente corretto bianco, non hai speranze), a me, dicevo, la nobile data del 25 aprile apparecchiata in questo modo fa cadere il latte alle ginocchia. Perché in un 25 aprile così, in cui ti devi dichiarare pubblicamente e preventivamente antifascista, qualunque cosa questo significhi, e in cui devi fare almeno un pippotto in tv o su un palco impugnando un garofano rosso, a me, dicevo, tutta questa retorica fritta e rifritta, e pur non volendo citare gli stracitati Leonardo Sciascia e Pierpaolo Pasolini sul “fascismo degli antifascisti” e amando, io, la Costituzione della Repubblica italiana nata dalla Resistenza, a me tutta questa roba puzza di propaganda lontano un miglio. Una propaganda tanto più stucchevole e ipocrita quanto più pompata proprio da coloro che la Costituzione l’hanno violata, continuano a violarla e si prefiggono di violarla in futuro. In nome del popolo sovrano, della libertà e dell’uguaglianza. Come i concertoni del Primo maggio, insomma, tutti chiacchiere e distintivo e politicamente corretto, mentre, per dirne una, i bambini di Taranto continuano ad ammalarsi e a morire da decenni per i fumi dell’Ilva, ex Italsider, ex ArcelorMittal, oggi Acciaierie d’Italia. “American Fiction”, dunque. Bel fim, davvero.

Come funziona il voto di scambio. Candidature e cambi di casacca

1 commento

Malcostume, favori, compravendita di voti. L’esperienza personale della candidatura per vedere dall’interno i meccanismi perversi – sia a destra sia a sinistra – della campagna elettorale

Come funziona, in pratica, il voto di scambio? Chi e come lo organizza? Ed è, questo «scambio», solo politico-mafioso? O è più ampio, più seriale, più scientifico, più «indifferente»? Al punto da poter concludere, per provocatorio paradosso, che oltre a sciogliere i Comuni per tutelarli dalle infiltrazioni mafiose bisognerebbe anche sciogliere i clan mafiosi per tutelarli dalle infiltrazioni politiche? Cioè dalle infiltrazioni di quei comitati politico-affaristico-elettorali che ci ostiniamo ancora a chiamare partiti e che organizzano, molto più e molto meglio dei clan, il voto di scambio?

Per capirlo, ho messo in pratica quello che per me è il primo comandamento di ogni cronista e di ogni muratore: andare a vedere. E così l’anno scorso mi sono candidato a sindaco nel mio comune di origine, Altamura (Bari, Puglia), correndo da solo, con una lista mia, contro tutti gli altri (caravanserragli di decine di liste senza un domani, dall’accrocco di centrosinistra di Emiliano a quello di centrodestra di Sangiuliano).

Altamura ha 72 mila abitanti, tanti soldi e nessuna religione. Non è il sud povero e depresso, ma quello ricco, capace, e rapace. Un luogo perfetto per il voto di scambio di cui stiamo parlando, perché questo scambio è «oltre» il classico scambio politico-mafioso: è il voto di scambio che la politica (i comitati di cui sopra) organizza in maniera esemplare, in cui la mafia può esserci o anche no, dato che la mafia su questo terreno ha tutto da imparare e ben poco da insegnare. E questo anche per un’altra, fondamentale ragione: sarà pur vero che tutte le ideologie sono morte, ma è certamente vero che solo un’ideologia è sopravvissuta, e in Italia ha stravinto: il trasformismo, inteso non solo come cambi di casacca e giravolte dei politici, ma anche come condotta «normale» della cosiddetta società civile. I cui liberi individui sono disposti a vendere al libero mercato elettorale il proprio libero voto, non per 50, ma anche per 25 euro. Com’è appunto accaduto nella mia città alle Comunali dell’anno scorso. Dove un candidato (quello di Emiliano, di Sandrino Cataldo e persino del leghista Sasso) ha vinto per 18 voti sull’avversario (quello di Sisto e Sangiuliano).

Ebbene, entrambi gli schieramenti hanno beneficiato della scientifica battuta di caccia alla compravendita di voti. In una campagna elettorale, ad Altamura nel 2023, che definire «giolittiana» – esattamente nel senso in cui il grande Gaetano Salvemini raccontava le elezioni inquinate nella sua Molfetta e nei comuni pugliesi nel primo decennio del 1900 – è una definizione moderata. Lo sapevo che sarebbe andata in questo modo. Ma da cronista e da muratore ho voluto rendermene conto «dall’interno». Il punto più «alto» del mercimonio è stato non la promessa di una bombola di gas (almeno, quella serve ad alimentare una cucina o una stufa), ma un’app, che attraverso un sms inviato ai destinatari, che poi si autodistruggeva in mezz’ora, li invitava a raccogliere 4 voti per un compenso di 100 euro. L’sms si autodistrugge, ma se ne fai uno screenshot hai la prova della compravendita. E se una Polizia postale, o chi per essa, con o senza intelligenza artificiale, approfondisse, in un’altra mezz’ora si risalirebbe a chi ha attivato quel numero, inviato quel messaggio e beneficiato di quei voti. Oltre che, naturalmente, ai finanziatori di questi «fondi elettorali», per lo più imprenditori e appaltatori pubblici sempre pronti a spendere, nel passato nel presente e nel futuro, per tutte le campagne elettorali. A destra e a sinistra, sia per quelle dei «cattivi» sia, e ancor meglio, per quelle dei più insospettabili «buoni». Tutto questo, e altro, l’ho detto nei miei discorsi pubblici e nelle piazze, e l’ho scritto in una denuncia indirizzata alla procura della Repubblica di Bari, che il 25 aprile 2023 (prima quindi del voto e in un giorno simbolico e importante) ho consegnato ai carabinieri di Altamura. Se l’autorità giudiziaria vorrà «far luce», forse assisteremo al primo e non ultimo scioglimento di un consiglio comunale per «infiltrazioni politiche».

Carlo Vulpio, Corriere della Sera, 22/4/2024

Portogallo, l’altro 25 aprile

Lascia un commento

Cinquant’anni fa scoppiava a Lisbona la Rivoluzione dei Garofani, che pose fine a un regime oppressivo durato circa mezzo secolo. Fu una svolta per l’Europa e soprattutto per l’Africa, con la caduta dell’ultimo grande impero coloniale. Abbiamo incontrato Celeste Caeiro, la donna (oggi ha 91 anni) che donò ai soldati in rivolta i fiori che infilarono nei fucili. E rievocato la musica e la letteratura legate a quegli eventi

Lisbona e Alcobaça (Portogallo)

Cinquant’anni, cioè mezzo secolo. Eppure, un refolo di vento. A lei, Celeste Caeiro, quel 25 aprile del 1974 sembra ancora ieri. Era il giorno del colpo di Stato dei capitani delle forze armate, passato alla storia come la Rivoluzione dei Garofani, e quel giorno lei c’era. Anzi, non solo lei c’era, ma se non ci fosse stata lei, quel golpe che diventò un ossimoro, la «rivoluzione pacifica», non si sarebbe mai chiamato golpe o rivoluzione «dei garofani». Perché fu lei, Celeste Caeiro, che quel giorno, un po’ per caso e un po’ per sfida, si mise a distribuire garofani rossi ai soldati. E quelli li accettarono e li infilarono nelle canne dei loro fucili. Nemmeno gli hippy e i figli dei fiori e la beat generation degli anni Sessanta, che si erano rivoltati contro la guerra in Vietnam con la protesta pacifica e la resistenza passiva all’insegna del motto «pace e amore», avrebbero mai potuto immaginare che un giorno il loro slogan «mettete dei fiori nei vostri cannoni» si sarebbe realizzato. E addirittura in Portogallo. Un Paese che fino al giorno prima era una dittatura fascista. La più longeva dittatura fascista dell’Occidente: cominciata con il colpo di Stato del 1926 del generale Antonio Carmona, che pose fine alla Prima Repubblica, e proseguita con l’instaurazione, nel 1933, della dittatura del primo ministro António Salazar. Il regime portoghese è durato 48 anni, e dal principio alla fine Salazar non smise mai di plasmarlo a sua immagine e somiglianza, ottenendone un fascismo salazariano, il «salazarismo».

Salazar, quel giorno che Celeste Caeiro distribuiva garofani rossi ai soldati, già non c’era più. Era morto nel 1970, dopo che nel 1968 era stato colpito da un ictus cerebrale. Ma il salazarismo c’era ancora e i princìpi dell’Estado Novo di Salazar rimasero gli stessi con il suo successore, il cattolicissimo, ultraconservatore, reazionario, antidemocratico, antibolscevico e antiliberale (tutte definizioni sue) Marcello Caetano. Il quale fiutò il clima mutato e cercò di arrangiarsi con cambiamenti di facciata, attirandosi il sarcasmo degli oppositori, che definirono la sua politica a politica de tabuleta, cioè delle sigle. Come la sigla della famigerata polizia segreta Pide (Polizia internazionale e di sicurezza dello Stato) che diventò Dgs (Direzione generale della sicurezza), ma continuò a essere lo stesso covo di assassini.

Celeste Caeiro tutto questo lo sapeva. E lo ricorda benissimo anche oggi, a 91 anni, quando lo racconta a noi de «la Lettura», che siamo venuti a scovarla ad Alcobaça, un centro di 55 mila abitanti a 120 chilometri a nord di Lisbona, dove i monumenti sono due: il primo è il fiero monastero in stile gotico di Santa Maria di Alcobaça del XII secolo, tra i più importanti del Medioevo, e il secondo, bellissimo e ancor più fiero, è lei, «Celeste Caeiro nata ad Amareleja, nella regione dell’Alentejo, da madre spagnola di Badajoz e padre ignoto, terza di tre figli, i primi due maschi».

Celeste da qualche anno ha lasciato Lisbona perché gli affitti, anche quello di 300 euro mensili per la casetta in cui abitava, sono diventati troppo cari per una pensionata da 500 euro al mese, e si è trasferita ad Alcobaça, dove vive con la figlia Helena e la nipote Carolina.

«Avevo 41 anni e una figlia di sei – racconta Celeste – e facevo la cameriera a Lisbona, in un self-service in Rua Braancamp, il primo self-service che venne aperto in Portogallo. Il 25 aprile era l’anniversario dell’apertura del locale e il proprietario comprò tanti fiori, garofani bianchi e rossi, i più economici, per regalarli ai clienti. Erano le 8.30, avevo già un mazzo di garofani bianchi sotto il braccio e mi aspettavo una giornata speciale. Ma non così speciale come si rivelò quando il gestore del ristorante mi disse: “Vai a casa. Oggi non apriamo”. Perché?, gli chiesi. “Perché c’è il colpo di Stato. Portati i fiori e fila via, non metterti nei guai”, mormorò lui».

La replica di Celeste, la ragazza che aveva vissuto fino a vent’anni in un orfanotrofio di Lisbona e lì dentro aveva imparato tutto, e che una volta fuori aveva lavorato in una camiceria e poi in una tabaccheria in Rua da Prata e poi come guardarobiera in un locale notturno e poi da costumista al teatro Monumental, sempre puntuale e coscienziosa, lasciò il gestore del ristorante a bocca aperta. «Ma come, gli dissi, c’è il colpo di Stato e io vado a casa? Non se ne parla. E così – continua Celeste -, rientro nel locale, lascio i garofani bianchi e prendo quelli rossi. Raggiungo la prima fermata della metro e scendo al Rossìo (la piazza centrale di Lisbona, intitolata a Dom Pedro IV, ndr) e vedo questa piazza enorme piena di soldati, e persino i carri armati, i Chaimte, anche quelli me li ricordo bene, e mi dico: ma allora è vero. Fermo un militare e gli domando: ehi, che ci fate qui, cosa volete fare? E lui: “Andiamo al Carmo (lo stupendo convento gotico della Vergine del Carmelo, ndr) ad arrestare Marcello Caetano, che si è rifugiato lì dentro”. Mi sembrava un sogno. Aspettavo quel giorno da una vita. Vado su fino al Carmo anche io. Pieno di gente, con tante suore che scappavano in ogni direzione, e mi ritrovo davanti un soldato che con un gesto della mano mi chiede una sigaretta. Non fumo, gli dico, però posso darti questo garofano rosso, non ho nient’altro. Lui mi guardò un po’ sorpreso, poi mi sorrise, prese il garofano e lo infilò nella canna del suo fucile. E come lui fecero tutti gli altri militari ai quali donai i miei garofani».  

La storia di Celeste è la storia del Portogallo. Un Paese «in cui si soffocava lentamente», come racconta il poetico e potente film Treno di notte per Lisbona (2013) di Bille August, con Jeremy Irons. Un Paese dove prima del 1974 le donne, senza l’autorizzazione del marito, non potevano ottenere il passaporto o aprire un’attività, i libri e i film stranieri dovevano passare la censura, il reddito pro capite era tra i più bassi d’Europa, il 50 per cento della popolazione era analfabeta, i prezzi erano in continua ascesa. E dove i mezzi di informazione tacevano su tutto questo: lo ha raccontato con grande finezza Antonio Tabucchi in Sostiene Pereira (Feltrinelli, 1994), da cui Roberto Faenza nel 1995 ha tratto il film omonimo, l’ultimo da protagonista di Marcello Mastroianni prima di morire.       

«Anche io ero una donna – dice Celeste -, e anche io guadagnavo pochissimo e lavoravo tutto il giorno, a cottimo. Conobbi il padre di mia figlia, Guilherme, a 23 anni, faceva il guardiano notturno per il comune di Lisbona, ma finimmo per separarci perché lui non voleva che lavorassi. Per convincermi a rimanere in casa, comprò tutti i mobili nuovi, nuove lenzuola, non quelle ricamate ma quelle con i disegni a stampa, che costavano di più, e mi regalò anche una collana d’oro. Rifiutai lo scambio. E ci lasciammo. Volevo fare l’infermiera, avevo studiato per questo, ma me lo impedirono perché non mi ritennero “di sana e robusta costituzione fisica”… Mah, in realtà fu perché per il regime ero troppo piccoletta di statura… E poi avevo anche due zii che lavoravano nella Marina militare e furono arrestati dalla Pide perché comunisti. Insomma, avevo tutto ciò che occorreva per essere considerata una revoltada, una ribelle, una rivoluzionaria. E infatti lo ero. Nella vita privata e in quella pubblica. Il mio simbolo era Catarina Eufemia, la bracciante di 26 anni uccisa nel 1954 a sangue freddo dalla polizia per aver chiesto al suo padrone un aumento di salario e più umane condizioni di lavoro».   

Il fascismo salazariano a differenza di quello italiano non era basato su un «movimento» e su un consenso più o meno diffuso, ma fu un fascismo «calato dall’alto», che si reggeva su tre pilastri: l’esercito, la Chiesa e la borghesia. E non poteva tollerare alcuna opposizione, a cominciare da quelle alla sua «destra», come gli «ottobristi», che erano nazionalisti, ma anche radicali, anticattolici e antiplutocratici. E infatti furono loro quelli che Salazar fece fuori prima di ogni altro, mentre da docente universitario di Economia e da ministro, al quale veniva riconosciuto il merito di avere risanato le finanze pubbliche dopo la Grande Crisi del 1929, scriveva un manuale intitolato niente di meno che La pace di Cristo nella classe operaia.

E poi il colonialismo. Rapace, feroce, brutale. Mentre nel calcio il Benfica Lisbona vinceva le sue Coppe dei Campioni in Europa grazie ai suoi calciatori delle colonie africane, tra i quali il fuoriclasse mozambicano Eusebio, «la pantera nera», in quegli stessi Paesi africani per imporre l’ordine e lo sfruttamento si uccidevano i nativi in tutti i modi, anche facendoli saltare in aria sui terreni minati o bruciandoli vivi con le bombe al napalm. Per i ribelli, i sovversivi e i dissidenti c’era la deportazione nel campo di concentramento di Tarrafal, a Capo Verde, denominato «il campo della morte lenta», che in Occidente è stato il lager che ha chiuso per ultimo, nel 1975. Tutto documentato e raccontato già in quegli anni da chi era stato internato lì, per esempio i due grandi scrittori José Luandino Vieira, angolano, (Scritti dal carcere, Meltemi, 2022) e António Lobo Antunes, portoghese, (In culo al mondo, Einaudi, 1996).

Dopo il secondo conflitto mondiale, e nonostante si fosse mantenuto neutrale come il suo omologo di Spagna, Francisco Franco, Salazar non avrebbe retto. Sopravvisse grazie agli Stati Uniti, e alla Nato, che nel 1949 vide il Portogallo tra i Paesi fondatori. «Salazar aderì totalmente ai piani di Usa e Nato – scrivono Paolo Giannotti e Stefano Pivato in Il Portogallo dalla Prima alla Seconda Repubblica (Argalia editore, 1979) – e in cambio ottenne un rilancio del suo regime all’interno del proprio Paese». Ma il Portogallo colonizzatore era ormai diventato anch’esso un Paese colonizzato, una colonia del capitale finanziario straniero e, di fatto, anch’esso Terzo Mondo. Le multinazionali americane, tedesche, inglesi, giapponesi, alle quali il Paese, com’è stato dimostrato da diversi studi in materia, era stato svenduto, erano i reali padroni delle colonie portoghesi, e con i loro soldi mantenevano in piedi un regime decotto ma utile ai loro scopi. Mentre i militari, le forze armate, ormai una maggioranza dissenziente – quella che avrebbe fatto il golpe del 1974 -, non ce la facevano più a eseguire ordini da macellai. Fino all’indipendenza della Guinea (1974) e del Mozambico e dell’Angola (1975), sono stati tanti e sempre più numerosi i militari che dal mattatoio coloniale tornavano a casa sconvolti e schifati di sé stessi.

«Queste cose a me le spiegava un uomo semplice e grande come Álvaro Cunhal (leader storico del Partito comunista portoghese, ndr) – dice Celeste –, poiché io ero amica di sua sorella Eugenia e me le diceva anche un altro mio vero amico, Otelo Carvalho (esponente dell’ala rivoluzionaria dell’esercito del golpe, ndr). Quindi fui sorpresa fino a un certo punto dal 25 Aprile 1974. Piuttosto, ero meravigliata che non fosse successo prima».

Ma Celeste quel giorno fu felice come non mai. «Dopo il primo garofano donato a quel soldato che non ho mai conosciuto – racconta -, tutti chiedevano garofani. Così quando finii di distribuirli io, cominciarono a farlo anche le fioriste del Carmo e del Rossìo. Io allora tornai a casa da mia madre e le dissi: c’è la rivoluzione. Lei si affacciò alla finestra e vide che per le strade i soldati sfilavano con i garofani rossi. Vedi tutti quei fiori?, dissi a mia madre, glieli ho dati io. E lei: “Vergine Santa! E se ti sparavano?”. Ma no, mamma, le risposi, è una rivoluzione pacifica, i soldati stanno dalla parte del popolo. Sì, quel giorno fui davvero felice».

La «rivoluzione», bisogna dire, una volta tanto non si fece attendere. Già a maggio entrarono in vigore provvedimenti essenziali: la legge sui minimi salariali, che interessava oltre il 50 per cento dei lavoratori, i contratti collettivi per braccianti e pescatori, le ferie totalmente pagate, il congedo di 90 giorni per la gravidanza, la giusta causa per i licenziamenti, il congelamento dei prezzi, la nazionalizzazione di banche e assicurazioni e di 245 settori strategici per l’economia nazionale, e soprattutto la Riforma agraria, con l’esproprio di un milione di ettari di terra, pari alla sesta parte dell’intera superficie agricola del Paese. Poi, l’anno dopo, nel 1975, sempre il giorno del 25 aprile, le prime elezioni libere per eleggere l’Assemblea Costituente. E nel 1976, ancora il 25 aprile, la promulgazione della Costituzione.

Da allora molte cose sono cambiate in Portogallo. Non però per Celeste Caeiro. Che è diventata un simbolo, certo, ma che come tutti i simboli veri, autentici, è stato innalzato, sfruttato e messo da parte. Nessuno si è davvero occupato di lei. Né i governi di centrosinistra, né quelli di centrodestra. Dopo il grande incendio del 1988 nel quartiere del Chiado, dove abitava, il massimo che hanno saputo fare per lei è stato assegnarle un monolocale sgangherato al quartiere Chelas, «la piccola Africa di Lisbona», dove per la ormai nonna Celeste, nel frattempo colpita da un ictus e operata alle cataratte, la vita era impossibile. Celeste però si è rialzata, e anche se ha dovuto lasciare Lisbona, «perché non potevo più permettermela», oggi è la stessa di allora, lucida e orgogliosa. Fascismo nunca, 25 de Abril sempre, questa è la sua massima. Si commuove ai ricordi, però sa anche sorriderne. Dice: «Io non ho mai chiesto niente per me e mai lo farò». Giusto. Ma può farlo il nuovo governo insediatosi due settimane fa, che ha promesso tasse più basse e un aumento di stipendi e pensioni. Per il Cinquantenario, invece della inevitabile retorica, il nuovo governo di centrodestra potrebbe fare ciò che non ha fatto il centrosinistra. Raddoppiare la pensione di Celeste, da 500 a mille euro. Anche per decreto. Sì, ad personam. Sarebbe un meraviglioso provvedimento ad personam per i cinquant’anni della Rivoluzione dei Garofani.

Carlo Vulpio, la Lettura, Corriere della Sera, 14/4/2024

GIORNALISTI? «IN GALERAAA!»

Lascia un commento

C’è un avvocato di Sanremo, diventato senatore di Fratelli d’Italia (ma ditemi chi, in Italia, non possa diventare deputato o senatore o ministro in misura direttamente proporzionale alla sua inettitudine e insignificanza politica), il quale, passeggiando tra i codici penali e civili, in un momento di incontinenza, ha prodotto una eiezione puteolente: un nuovo articolo di legge, il 595 bis, che in materia di diffamazione a mezzo stampa prevede carcere, super multe, super risarcimenti e sospensione dalla professione per i giornalisti.

Questo tizio, un panciuto sessantenne di nome Giovanni Berrino, oltre a confondere diffamazione e fake news, nella stessa proposta di articolo di legge scrive che «le pene sono aumentate se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio». Insomma, come diceva il grande Giorgio Bracardi nei panni del gerarca Ermanno Catenacci: «In galeraaa!».

E’ evidente che l’anonimo Berrino, eruttando questo illiberale e ipocrita 595 bis, voglia legare il suo nome a qualcosa di importante, e quindi spara sulla libertà di stampa, in Italia già in coma di suo. Oppure vuol imitare quell’altro senatore, Roberto Farinacci, segretario del Partito nazionale fascista, il quale, oggetto della satira pungente e intelligente della mitologica rivista satirica “Il becco giallo”, nel 1926 la fece chiudere. Tutto può essere, con questi nani megalomani. Anche se la cosa non si spiega. Perché Berrino, a differenza di Farinacci e di Catenacci, non se lo caga nessuno.    

   

IL TRASFORMISMO DEL BUE E DELL’ASINO

Lascia un commento

Ma come – dice Schlein -, lui, Conte ha fatto il governo con Salvini e chiama trasformisti noi del Pd? Noi 5s non siamo trasformisti – dice Conte, che esce dalla giunta regionale pugliese, ma sa bene che la maggioranza del suo amico Emiliano, camaleonte e trasformista come lui, resta in piedi. E gli altri? Meloni, Salvini, Renzi, e tutti i democristi e sinistri redivivi (compreso quel Vendola condannato a tre anni e mezzo per l’Ilva, per il quale, chissà com’è, il processo di appello non si celebra ancora)? Tutti costoro non sono altrettanti trasformisti? Ma certo che lo sono. E infatti se lo rinfacciano l’un l’altro alla maniera del bue che dice cornuto all’asino. Tanto che con questi buoi e questi asini nemmeno Gesù Bambino avrebbe mai scelto di nascere in Italia. Per non compromettersi fin dal primo momento con il genere umano. In Italia, infatti, il trasformismo è l’unica ideologia che non è morta, e anzi ha stravinto, e il Bambinello, qui da noi, avrebbe rischiato di morire di freddo prima che sulla croce. Per questo motivo Gesù ha preferito Betlemme e ha scelto un asino e un bue di quelle parti. Per non doverli incenerire subito a causa del loro italico trasformismo.

Older Entries