Se uno trucca un appalto, è una notizia.

 

Se uno condanna pubblicamente gli appalti truccati e un giorno viene scoperto a truccare appalti è una doppia notizia. (C’è una “doppia notizia” nel film “Il moralista”, non a caso un grande successo, in cui Alberto Sordi interpreta un tenace e cattolicissimo censore della pornografia che sfrutta spogliarelliste nei night club).

 

Se poi l’autore di uno di questi comportamenti è un personaggio pubblico, più o meno noto, allora siamo in presenza di una tripla notizia.

 

Avvertenza: dicesi personaggio pubblico non soltanto un cittadino eletto a una carica pubblica, ma anche un magnate dell’economia, un magistrato, un cantante, uno scrittore, un prelato. O un direttore di giornale.

 

E allora, piaccia o non piaccia, se c’è una sentenza passata in giudicato (anche se conseguenza di un patteggiamento) che condanna per molestie sessuali quel personaggio pubblico, la notizia di quella sentenza va pubblicata. Punto e basta. Quanto meno per il principio di uguaglianza: se infatti la stessa sentenza riguardasse una persona qualunque non solo verrebbe pubblicata, ma nessuno fiaterebbe, né si parlerebbe di “attacco” eccetera. Poi, si può discutere di tutto. Anche della stessa sentenza definitiva, che non è la parola di Dio, ma, appunto, una sentenza di un giudice.

 

Nel caso specifico di Dino Boffo, direttore del quotidiano della Conferenza episcopale italiana “Avvenire”, la notizia, purtroppo, vale quattro volte una notizia “semplice”. E il quarto motivo, da aggiungere ai tre già detti, è che Boffo sarebbe omosessuale.

 

Nulla da eccepire per chi, come me, si onora di avere amici gay e auspica per loro pari diritti.

 

Ma è o no una “notizia” se il molestatore della compagna del proprio fidanzato (secondo ciò che è scritto nella sentenza del giudice) è un signore che, oltre a dirigere un giornale ufficiale della Chiesa cattolica romana e a essere un uomo molto potente all’interno dei palazzi vaticani, condanna l’omosessualità (oltre al divorzio, all’aborto, alla pillola, alla fecondazione assistita) come un peccato?   

 

Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, è un uomo pubblico e in una democrazia appena decente ha il dovere di rispondere alle domande che gli vengono rivolte circa i suoi comportamenti pubblici. Ovviamente, anche di fronte alla legge egli non è e non deve essere “più uguale” degli altri. Ma quanto ai suoi comportamenti privati (voglio essere greve per essere chiaro: andare con le puttane), come ho già avuto modo di osservare, fino a quando questi comportamenti non consistano nella commissione di reati egli può (deve) essere giudicato soltanto sul piano politico e sulla base dei convincimenti morali di ciascuno.

 

Questo principio però – non dimentichiamolo, altrimenti si finisce in un doppiopesismo che prima o poi diventa un boomerang – non vale soltanto per Berlusconi. Vale anche per qualunque personaggio pubblico. Del mondo dell’economia, dello sport, della politica, della religione, della magistratura. Vale per te e vale per me.

 

Per esempio, un prelato pedofilo o un alto magistrato che fa fare carriera alla collega che va a letto con lui commettono reati. Ma se quel prelato o quel magistrato hanno relazioni sessuali con adulti consenzienti (omo o etero non ha importanza), be’, questi sono fatti loro. Ovviamente, farà “notizia”, poiché di grande interesse pubblico, il prelato che fa voto di castità e di celibato e ha l’amante; il magistrato o il politico divorziato che partecipa al Family day, e così via. Nessuna condanna morale, né penale, ma non si dica che per casi del genere non scatti il dovere dei giornalisti a informare e il diritto dei cittadini a essere informati.

 

Il fatto poi che qualche alto esponente della gerarchia cattolica romana alzi la voce e il dito ammonitore per avvertire che “la Chiesa perdona, ma non dimentica”; e che “in Italia i governi che si mettono contro la Chiesa non durano”, non spiega né aiuta a capire le cose, ma le aggrava. Ci ricorda, qualora ce ne fosse bisogno, la peculiarità italiana: uno Stato a sovranità limitata (grazie anche allo sciagurato articolo 7 della Costituzione), in cui l’autorità della Chiesa cattolica è direttamente proporzionale alla decrescente autorevolezza dello Stato italiano (e il Vaticano, quando gli si fa contro, mena: lo fece persino con un “suo” presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, uno dei pochissimi veri statisti italiani).

 

Più di uno sostiene che “il Giornale” abbia sollevato il caso del direttore di “Avvenire” per ragioni che con la libertà di stampa hanno poco a che fare.

Secondo alcuni, per eseguire una vendetta ordinata da Berlusconi per le critiche rivoltegli da Boffo.

Secondo altri, per silurare una corrente vaticana (Ruini-Boffo) e favorirne un’altra (Bertone-Ratzinger).

Può darsi. D’altra parte, non sarebbe la prima volta che un’alta carica dello Stato si “vendichi” attraverso un giornale o una tv. Così come è incontestabile che in duemila anni siano stati contati più complotti al di là del Tevere che comete nel cielo.

 

Ma il punto in discussione non è questo. Di fronte a un fatto, com’è la sentenza Boffo, vale poco eccepire sulla “paternità” del fatto medesimo. Altrimenti, così come si “squalifica” un fatto vero perché proveniente dallo schieramento “nemico”, si potrà “accreditare” un fatto falso soltanto perché proveniente da fonte “amica”. Con quali sconquassi è facile immaginare. 

 

Il problema vero, invece, è se dobbiamo far finta che la libertà di stampa e di espressione possano continuare a essere considerate a senso unico. Insomma, vogliamo chiederci o no, una buona volta, se la “semilibertà” della informazione italiana è colpa del solo Berlusconi e del suo impero mediatico, oppure se anche tutti gli altri non facciano la propria parte, fornendo così a Berlusconi, ma anche a se stessi, il migliore degli alibi?

 

p.s.

 

Preciso che ho citato per danni il quotidiano “Libero” diretto da Vittorio Feltri perché ha pubblicato, addirittura in tre puntate, intercettazioni telefoniche del sottoscritto con altri giornalisti (del Corriere della Sera e di altre testate), con ufficiali di polizia giudiziaria e con magistrati.

 

Intercettazioni del tutto private, o di natura esclusivamente professionale, che mai avrebbro dovuto essere nemmeno trascritte, e che vennero ordinate – pensate un po’ – dalla procura di Matera per controllare la procura di Catanzaro, che indagava proprio su quei magistrati lucani. Fantastica l’imputazione, mai formulata in Italia né nel resto d’Europa: associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa.

 

Le indagini per questo reato inesistente sono ancora in corso (nonostante per noi imputati sia arrivato il proscioglimento della procura di Salerno), ma nessuno in questi due anni ha organizzato una manifestazione nazionale, o scritto un editoriale di fuoco o semplicemente sollevato un giusto casino contro questo grave episodio eversivo.

 

Questo sì, è stato un vero “attacco” intimidatorio, nei modi e nelle forme uno dei più gravi attacchi alla libertà di stampa in tutta la storia repubblicana. Ma si vede che gli alfieri della “libertà” a giorni alterni non se ne sono accorti. O forse fanno finta. Per non dover parlare, oltre che di Berlusconi, anche di loro e dei loro amici.