Scampata la pagliacciata del collegamento video con Zelensky, il pupazzo di pezza degli Usa, che si limiterà a inviare un testo da far leggere al maggiordomo Amadeus, a Sanremo ci sarà Sergio Mattarella. Mai un capo dello Stato era andato al festival, anche solo per assistervi e prendersi la razione di applausi di ordinanza in Eurovisione. Mattarella ha deciso per la discontinuità. Evidentemente, di Zelensky – nonostante la febbrile mediazione del gran cerimoniere di Stato, Bruno Vespa, per portarlo sul palco del teatro Ariston -, persino la cosiddetta opinione pubblica ne ha le palle piene. E allora, dalla panchina, entra in campo Mattarella. Il quale compie questo gesto eroico, da vero statista, per incoraggiare un Paese a pezzi e alle pezze.

Andrà dunque al teatro Ariston, Mattarella, e, dal posto d’onore, dismessa l’aria funerea, applaudirà prima Gianni Morandi, che canterà l’Inno di Mameli e poi Roberto Benigni, che si esibirà in una delle sue ruffianate di regime. Il tutto, in nome dei 75 anni della Costituzione italiana, cioè la stessa Carta più e più volte calpestata, sciancata, vilipesa, tradita in base alle convenienze del momento. E ridotta a una crozza, ovverossia un teschio.

Ecco, Mattarella, a Sanremo, potrebbe intonare la bella canzone popolare siciliana a lui certamente nota: “Vitti na crozza supra nu cannuni…”, ma senza il ritornello “trullallero lallero lallà”, che non c’entra, poiché venne aggiunto dopo, e in qualche modo declassò quella bella canzone a una banale tarantella. Quale è Sanremo. Con o senza Zelensky e gli altri.

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