L’anziana uccisa in una sparatoria a Bitonto: guerra tra clan e terrorismo mafioso di agguati in centro e alle feste patronali
«Ma se cambiano gli assetti a Bari, Bitonto ne risentirà?». Dopo l’ennesimo omicidio e l’ennesima sparatoria tra la gente in stile Chicago anni ’30, ecco che si riparla di «assetti». Come se si parlasse di variazioni delle quotazioni in Borsa, o della mutevolezza delle alleanze politiche, oppure della modifica del sistema di gioco di una squadra di calcio.
Si parla di «assetti» criminali in Puglia, a Bari, e quindi anche a Bitonto – 15 chilometri e 55 mila abitanti nell’hinterland -, come se si parlasse di Cosa Nostra, come se si stesse girando un sequel del Padrino, e a ogni scossone, a ogni mutamento nel borsino del potere e dell’influenza delle famiglie mafiose si debbano ridisegnare gli equilibri, i rapporti di forza, gli «assetti» appunto, e questi a loro volta non possano che riverberarsi sulla costellazione dei gruppi criminali minori, ma non meno cruenti, siano essi storici oppure emergenti.
In realtà, è almeno da un quarto di secolo che la domanda sugli «assetti» è sempre la stessa, come sempre la stessa è la risposta: questi gruppi criminali, queste famiglie, che spesso sono tali in senso stretto, cioè composte da consanguinei, che sparano, ammazzano, strozzano, derubano, estorcono, spacciano droga, e che non si ritraggono se devono azzannarsi tra loro, non sono invincibili, non sono irresistibili, erano e sono schegge, «stidde», gruppuscoli sanguinari autocefali che intimidiscono con sistemi da terrorismo mafioso, ma non sono nulla di fronte al potere dello Stato, che potrebbe disintegrarli quando e come vuole.
Invece, da almeno un quarto di secolo a questa parte, i nomi di queste schegge e le facce di queste «stidde» sono sempre gli stessi e resistono sulla scena come nemmeno le grandi famiglie mafiose della tragica storia nazionale o dell’invenzione letteraria e cinematografica. Ecco perché a Bitonto e non solo, ma in tutta la provincia barese, e a Foggia, e nell’intera Puglia, si interrogano sugli «assetti» di Bari. Il ventenne sparatore rimasto ferito ieri nello scontro a fuoco che è costato la vita alla povera Anna Rosa Tarantino è, dicono, vicino al clan bitontino dei Conte, il quale è in lotta, in una stracittadina del crimine che ha le sue sponde e le sue alleanze negli «assetti» baresi, con i clan bitontini dei Cassano e Cipriano, da qualche tempo alleati tra loro. Lo stesso canovaccio degli ultimi due tentati omicidi, del 17 agosto e 18 ottobre scorsi: sparatoria tra la folla, la prima volta in centro e la seconda al luna park durante la festa patronale, i bersagli dell’agguato che riescono a salvarsi, un passante che viene ferito e il panico generale. Risultato collaterale: fibrillazioni negli «assetti» tra le dieci-dodici eterne famiglie baresi che, secondo le immancabili mappe dei clan diffuse dal ministero dell’Interno, di volta in volta si alleano, si combattono, e addirittura si confederano o dissentono, come se fossero a un congresso di partito.
«In questi giorni tradizionalmente riservati alla spensieratezza e alla pace la città piomba in un clima di surreale violenza», ha detto il sindaco di Bitonto. Purtroppo però, Bitonto – come San Severo, Cerignola, Andria, Barletta, Bisceglie, Altamura, Gravina di Puglia, tutti comuni tra i centomila e i cinquantamila abitanti, per non dire di Foggia che ne ha 160 mila – non è all’improvviso «piombata» nella violenza, ma vi è dentro da tempo, ed è una violenza non «surreale», ma molto reale, dura, pesante, in cui le quotidiane prepotenze impunite di una malavita che spesso non si riesce a contrastare (eppure l’Italia, dice Eurostat, è in cima alla classifica Ue per numero di agenti di polizia, 278 mila contro i 243 mila della Germania e i 203 mila della Francia, senza contare le 100 mila unità tra agenti di polizia urbana, polizia penitenziaria e vigili del fuoco) fanno salire anche la temperatura del «corpo sociale», cosicché persino un banale diverbio per questioni di traffico diventa più facilmente un omicidio, com’è accaduto sempre a Bitonto il 16 agosto scorso, quando un ferroviere in pensione ha accoltellato e ucciso un ragazzo di 25 anni, davanti alla figlia e al nipotino.
E se non sono omicidi, sono rapine. Ancora a Bitonto, tre giorni fa, un benzinaio ha subito la sesta rapina in tre mesi e durante l’ultima è stato derubato anche un automobilista che stava facendo carburante. In compenso però la polizia l’altroieri ha sequestrato ben un chilogrammo di «materiale esplodente», i botti, e Bitonto ha pur sempre un assessorato «al marketing territoriale». Proclamato il lutto cittadino e annullati tutti gli eventi pubblici fino al 7 gennaio, ascoltate le infervorate parole dei rappresentanti istituzionali, resta la domanda: ma se cambiano gli assetti a Bari, Bitonto ne risentirà?
Carlo Vulpio, Corriere della Sera, 31/12/2017
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maurizio portaluri
Gen 01, 2018 @ 22:40:22
La mafia non è nell’agenda politica in Puglia. Qualche anno fa ascoltai un intervento di un deputato barese, Dambrosio-Lettieri, affermare che la criminalità in Puglia c’è , ma non è così efferata come altrove, io chioserei quasi “gentile”. A Brindisi, dove vivo, e forse anche nelle altre città della Puglia nominate nell’articolo, le autorità hanno messo per queste feste natalizie sulle vie principali i blocchi di cemento per contrastare attentati terroristici (islamici). Certo è più facile fare questo che pattugliare il territorio e contrastare lo sfruttamento della prostituzione che ormai si svolge sulle nostra strade senza contrasto alcuno. Se continuerà a sopravvivere questa vulgata, quella della criminalità “gentile” lo stato di assedio criminale si consoliderà come normalità.
Carlo Vulpio
Gen 02, 2018 @ 23:17:06
La mafia, nell’agenda politica, pugliese e italiana, c’è. E ce n’è persino tanta, troppa. Ma soltanto perché serve ad agevolare le carriere politiche, giudiziarie e “letterarie” dei soliti noti, “antimafiosi di professione” (Vendola, Saviano & C.).
La Mafia, in Italia, ha perso. E poiché la Mafia ha perso, i professionisti dell’antimafia sono rimasti privi dell’oggetto delle proprie “lotte”.
Quindi serve chiamare Mafia tutti i gruppi criminali che ne utilizzano i metodi, metodi appunto terroristico-mafiosi, non per sradicarli con una seria azione di contrasto che il potere dello Stato potrebbe svolgere efficacemente in sei mesi, ma per poterne narrare il “fenomeno”, oscuro e sfuggente, e così giustificare l’eterna, inevitabile, imbattibile presenza della Mafia. E su questo costruire le proprie carriere politiche, giudiziarie, “letterarie”, come predisse Leonardo Sciascia.
gianfranco fiore
Gen 10, 2018 @ 09:31:47
Troppa prepotenza in giro,anche andare in macchina è diventato un rischio,se gli fai un colpo di clacson sulla doppia corsia si fermano per prenderti a botte,troppa poca polizia stradale in giro.
Massimiliano
Gen 23, 2018 @ 15:44:58
Rileggevo della vicenda attorno agli articoli sulle inchieste di De Magistris che hanno convinto quel s… di Mieli a metterti alla porta con una telefonata.
Niente, volevo rappresentarti la mia solidarietà!
Un buon cavallo non ha bisogno ne della carrozza dorata e ne del cocchiere venduto!
Carlo Vulpio
Feb 10, 2018 @ 14:42:34
Mieli non mi ha “messo alla porta”, ritenne che da un certo momento in poi non dovessi essere più io a seguire quelle inchieste. Non condivisi la sua scelta, poiché molte di quelle inchieste erano inchieste giornalistiche mie, non del pubblico ministero di Catanzaro. Forse Mieli avvertì il rischio, poi rivelatosi fondato, di una strumentalizzazione di quelle inchieste giudiziarie da parte dello stesso pm, il quale infatti fece di tutto per farsele revocare e per poter così presentarsi sulla scena politica come “martire”, lasciando tutti per strada – dalle vittime agli stessi indagati -, pur di raggiungere il suo obiettivo, cioè la notorietà e il conseguente consenso elettorale. Ero in buona fede, non potevo immaginare questo esito. Non me ne faccio una colpa, ma mi considero responsabile di avere creato, seppure in buona fede, un “mostro”, che ha dimostrato anche in politica tutta la sua mediocrità e disonestà intellettuale. Uno dei tanti, insomma.